MARTINA CORGNATI — Intervista di Simona Squadrito
Fonte: https://www.thatscontemporary.com/hideout/
La critica d’arte Martina Corgnati è per il terzo anno consecutivo la curatrice del Premio Internazionale Bugatti Segantini, che quest’anno la vede impegnata in una doppia curatela – quella della mostra di Renata Boero, vincitrice del Premio alla Carriera – e quella dedicata ai sessant’anni del Premio. Le due mostre inaugureranno entrambe l’otto giugno nelle due sedi storiche di Nova Milanese: Villa Brivio e la Scuola delle arti e mestieri. Per l’occasione sarà presentato il cagatolo ragionato dei sessant’anni di attività della manifestazione artistiche piu’ longeva d’Italia.
Simona Squadrito: Buongiorno Martina. Tra poco inaugura la terza edizione del Premio Bugatti-Segantini che ti vede come curatrice. Quest’anno è un’inaugurazione piuttosto importante, perché si celebrano i sessant’anni di vita del Premio. Renata Boero è l’artista a cui verrà consegnato il Premio alla Carriera questo 8 giugno, giornata inaugurale della manifestazione e della sua mostra presso le sale di Villa Brivio di Nova Milanese. La mia prima curiosità è questa: come si è arrivati alla scelta di Renata Boero? Perché lei?
Martina Corgnati: Il Premio alla Carriera prevede delle figure che hanno fatto una carriera consistente; in più questo è l’anno delle donne, per questo c’è stata una forte domanda affinché il premio venisse conferito a una figura femminile. Inoltre il Premio Bugatti-Segantini ha una vocazione alla pittura, a partire da questi tre principi: il vincitore dev’essere un artista con una lunga carriera alla spalle, donna e anche pittrice. Dopo attente riflessioni e dopo aver valutato diverse figure, la scelta è caduta di comune accordo su Renata Boero, un personaggio importante nell’ambito della cultura artistica italiana, che si è mossa per tanti anni in maniera molto originale e convincente, producendo carte piegate e strutture visive che hanno una grande forza di comunicazione, un’originalità sia in quanto oggetti, sia dal punto di vista della tecnica utilizzata. Renata Boero, per esempio, si è sempre preparata da sola i suoi pigmenti.
S.S.: Sì, lavora nel suo studio come una sorta di alchimista.
M.C.: Mi vengono in mente, per esempio, le sue bolliture: sembra proprio che voglia corteggiare certi cliché che appartengono all’immaginario femminile: la fata, la strega. Inoltre ha fatto di questa esperienza molto personale del colore qualcosa di piuttosto unico; per questo ritengo che meriti a pieno titolo di essere premiata.
S.S.: Discutendo con Renata ho però notato che a lei sta abbastanza stretta l’etichetta di pittrice.
M.C.: Non c’è dubbio. Ormai parlare di generi artistici è diventato problematico. Renata di fatto ha usato la pittura. Per esempio, un personaggio come Ugo Mulas lo si definisce fotografo, ma in realtà è un artista che ha usato la fotografia. Alla critica d’oggi piace di più pensare che l’arte sia una e che ci siano tanti mezzi per realizzarla. La pittura evoca troppo l’immagine del cavalletto, dell’olio su tela, e non penso che Renata abbia mai dipinto un quadro del genere.
S.S.: All’inizio era una pittrice da cavalletto, con un’attenzione particolare al paesaggio; non a caso il quadro selezionato ed esposto alla sua prima Quadriennale è propio un paesaggio.
M.C.: Sì, certo, ma questo è accaduto quando era ancora una ragazzina, non si può pensare che quei lavori siano la sua opera. La sua è piuttosto una dimensione di “uso della pittura”. La sua ricerca è un corteggiamento dell’idea della pittura e di alcuni elementi che la riguardano. Anche gli altri due artisti che sono stati premiati al Bugatti-Segantini negli ultimi due anni, Agostino Ferrari e Franco Guerzoni, non possiamo definirli pittori in senso stretto; usano a loro modo certi ingredienti della pittura per evocare determinate dimensioni, che vanno però al di là della pittura stessa e che comunque non rappresentano nulla. Non c’è nel loro linguaggio un rapporto di referenza con il reale. Guerzoni, per esempio, attraverso le stratificazioni fa parlare il tempo, mentre Agostino Ferrari il segno.
S.S.: Agostino Ferrari è comunque ancorato a un atteggiamento pittorico mutuato dagli esiti di Lucio Fontana. A mio avviso si tratta ancora di pittura che riflette su se stessa. L’esperienza di Renata è più articolata. Mi sembra che lei sia riuscita a incarnare due anime: quella dell’arte povera e quella della pittura analitica.
M.C.: D’altra parte è difficile essere un artista davvero contemporaneo pensandosi come pittore o pittrice in senso tradizionale. Essere un artista contemporaneo vuol dire aver fatto i conti con una ridiscussione dei generi, con l’esperienza profonda e impegnativa del Novecento.
S.S.: L’attualità della scelta di Renata Boero – tralasciando il fatto che era doveroso dopo sessant’anni premiare un artista donna – sta anche nelle tematiche che la sua ricerca sviluppa. Mi riferisco nelle specifico al tema della natura, da sempre soggetto e oggetto della sua ricerca artistica.
M.C.: Sì, assolutamente: la sua ricerca, il suo ragionamento intorno alla natura è estremamente attuale.
S.S.: Sempre discutendo con Renata ho appreso alcune informazioni riguardanti l’allestimento della sua mostra. Vorrebbe allestire le sale di Villa Brivio, interpretandole come se fossero pagine di un libro; un percorso narrativo visivo che si sviluppa pagina dopo pagina, sala dopo sala.
M.C.: Mi sembra molto bella l’idea di pensare agli ambienti di Villa Brivio come a delle pagine di un libro. Ovviamente dobbiamo ancora definire tutti i dettagli della mostra.
S.S.: Tu e Renata vi conoscete da molto tempo?
M.C.: Sì, da tanti anni. L’ho presentata per la prima volta circa venticinque anni fa.
S.S.: Nel tuo percorso triennale come curatrice del Premio alla Carriera del Bugatti-Segantini è possibile rintracciare nella scelta degli artisti selezionati delle matrici comuni. Si tratta di pittori non-pittori, artisti che hanno incarnato quello che viene definito “l’abbattimento dei generi”; artisti che non si sono limitati a dipingere una tela. Dal tuo punto di vista qual è il fil rouge che lega il suo percorso all’interno del Premio?
M.C.: Io sono convinta che se un artista oggi si limita a prendere una tela e a riempirla di colore non sia un artista interessante. Un elemento comune a questi tre artisti è che hanno dato al loro linguaggio una componente non esclusivamente pittorica, dotata di una forte pregnanza contemporanea. Ha senso oggi guardare il loro lavoro. Se mi trovassi di fronte a un quadro dipinto in maniera fantastica, lo troverei anacronistico e obsoleto; se questo dipinto mi venisse proposto così in quanto tale.
Riguardo a ciò di cui abbiamo parlato prima, ovvero alla questione dello scontro ideologico tra artisti figurativi e astrattisti, che ebbe luogo in Italia dal dopoguerra per circa un ventennio: sì, è vero, ci sono state delle anomalie italiane che trovo ridicole; è stato ridicolo parlarne alla fine degli anni Cinquanta. Questa “anomalia italiana” ha un’origine politica: è legata all’estrema forza di penetrazione culturale che ebbe il Partito comunista in Italia. Per tanti anni, almeno fino al 1956, tutti gli artisti che erano comunisti e prendevano sul serio uno come Togliatti, che sotto lo pseudonimo di Roderigo di Castiglia scriveva su Rinascita, la rivista da lui fondata nel 1944. Scriveva che la pittura doveva essere operaia, che doveva parlare ai contadini. Per me sono tutte cavolate, la pittura non ha mai parlato ai contadini. Questa anomalia viene alimentata da presupposti ideologici molto precisi, sostenuti da diversi manifesti, come per esempio il Manifesto del Fronte Nuovo delle Arti. Ci sono state cose molto “eroiche”, come la “chiamata ai pennelli” di Renato Guttuso. Si tratta di ideologie nate negli anni Quaranta. Siccome però l’Italia non è entrata nel patto di Varsavia, ma è rimasta, per fortuna, nella zona di interesse della NATO, le cose sono comunque andate avanti con il loro passo.
S.S.:Questa storia tutta italiana ha anche un suo collegamento diretto con il Premio, perché quest’ultimo ha avuto come critici storici proprio i protagonisti di questa diatriba, come Raffaellino De Grada e Mario De Micheli. Si tratta di intellettuali e critici engagé, legati in modo diretto alla rivista Realismo e al Gruppo Corrente. La differenza tra il Premio Lissone e il Premio Bugatti-Segantini – racconta in piccolo proprio questa storia.
M.C.: Certamente. Ripercorrendo a volo d’uccello le vicende del premio Bugatti-Segantini, è evidente che sia nato per una precisa volontà politica: quella del sindaco Carlo Fedeli e di Vittorio Viviani, un personaggio importante e decisivo soprattutto per le prime chiamate, per il coinvolgimento di critici e intellettuali dell’epoca come De Grada, De Micheli o Fumagalli. Io ho conosciuto Fumagalli, così come Treccani, e di loro ho un bel ricordo: erano persone simpatiche, affettuose e molto comuniste. Avevano la forte convinzione che l’arte dovesse rispondere a una missione sociale estrinseca; una missione che non è interna all’arte. Analizzando i primi anni del Premio, possiamo constatare come tutto questo si esprimeva anche nel suo format: non va dimenticato che all’inizio si trattava di una competizione estemporanea con una componente fortemente popolare.
Dal mio punto di vista sono due i successi del Premio Bugatti-Segantini: da una parte vi è quest’anima popolare che ha avuto un’accezione veramente autentica, capace di coinvolgere le persone, gli abitanti di Nova Milanese così come quelli dei paesi limitrofi. Ciò ha stimolato una libertà di fantasia, di azione e di partecipazione molto viva. D’altra parte, nonostante questi requisiti, che possono anche essere visti come dei limiti, il Premio riesce a evolversi e a cambiare nel tempo, ed è riuscito ad avere una durata cospicua, superando tutte le crisi. Inoltre ha visto la presenza, piuttosto significativa, di ottimi artisti; altri artisti, meno interessanti, hanno comunque rappresentato un elemento importante: quello di essere una manifestazione popolare. Il 1968 segna una data di svolta, che ha cambiato i criteri di selezione e in seguito a cui hanno cominciato a comparire anche opere non strettamente legate al Realismo. All’interno del Premio Segantini (prima che fosse inglobato nel Premio Bice Bugatti), rivolto ai più giovani e legato soprattutto al disegno, ci sono delle opere molto interessanti. Un’altro aspetto da tenere in considerazione del Premio è l’affezione e la voglia di documentare tutte le tecniche artistiche, di fregiarsi, di riempirsi e di avere delle testimonianze delle diverse tecniche. Certo, ogni tanto è capitato che non si siano accorti di una grande personalità che passava di lì.
S.S.: Da anni rifletto su alcune parole scritte dallo storico dell’arte Arnold Hauser, nelle ultime righe del suo testo più celebre, “Storia sociale dell’arte”. Hauser lancia un messaggio che a prima vista può sembrare chiaro, ma che in realtà è molto più complicato e a mio avviso molto enigmatico. Sostiene che l’arte, senza rinunciare alla specificità del suo linguaggio, senza essere costretta a banalizzarsi e a semplificarsi, abbia il compito di allargare gli orizzonti delle masse. Ma come può realizzarsi una cosa simile?
M.C.: Questo io non lo posso dire; sarei immodesta se le dicessi di avere questa chiave di lettura. In breve, quello che mi sembra di leggere in questa frase di Hauser, è una menzione alla funzione educativa e didattica dell’arte, che l’arte può avere. Da questo punto di vista sono d’accordo con lui, ma come si possa espletare e svolgere questa cosa non sta a noi dirlo. Di volta in volta si sono proposte delle soluzioni diverse, alle volte realizzate con più successo, altre meno. Posso farti però un esempio concreto; da poco si è conclusa a Milano la settimana dedicata al design, che ha movimentato circa trecentomila persone. Certamente si può pensare che questo sia un fenomeno di moda, ma il fatto che abbia interessato tutte queste persone significa che l’educazione funziona e che la cultura interessa, oggi più di quanto interessava negli anni Cinquanta. De Micheli parlava di masse proletarie, ma dove stanno oggi le masse proletarie; che cosa è oggi il popolo?
S.S.: Hai appena menzionato il Salone del mobile: un grande evento che coinvolge tutta la città di Milano, una manifestazione che lei ritiene sintomo di interesse per la cultura. Ma non è anche possibile leggere la fortuna popolare di questa manifestazione, e di altre simili a questa, come il trionfo di un atteggiamento che ha fatto della cultura una merce di consumo? Molti intellettuali accusano l’atteggiamento contemporaneo nei confronti dell’arte, definendolo come “culturame”, e il palinsesto ricreativo milanese viene letto come “mostrismo”, un termine che vuole evidenziare un atteggiamento di consumo nei confronti della cultura che ci porta a vivere in modo bulimico un evento dopo l’altro. La scelta non sarebbe tra un evento culturale di qualità o un altro, ma per esempio tra andare a una mostra o andare al centro commerciale.
M.C.: A mio parere non sempre e non dappertutto; se si alimenta un mondo culturale, uno spirito e una voglia di frequentare eventi culturali, la collettività se ne avvalora. Certo, la mostra diventa un’opzione. Ma prima non esisteva neanche la possibilità di scegliere tra il centro commerciale e una mostra; a Milano, invece, è possibile scegliere se passare la domenica al MUDEC, a Palazzo Reale, al Museo del Novecento etc.
S.S.: Quindi per te non c’è da scandalizzarsi se la cultura e la non cultura sono pesati sulla stessa bilancia, e se la cultura viene pensata come un’opzione alla non cultura?
M.C.: No, assolutamente, perché mai dovremmo scandalizzarci? In Italia non c’è un vero investimento nella cultura, la cultura costa e se si dovesse sostenere la cultura, i piani della nostra finanziaria così come sono non andrebbero mica bene. Quindi bisogna arrangiarsi diversamente, chiedere aiuto all’iniziativa privata, che non si riduce al solo mecenatismo. Il privato alle volte ha in mente il suo profitto, ma d’altronde esiste oggi un’alternativa? Qui io non la vedo. Altrove, in Paesi dove lo Stato investe di più nella produzione culturale, sarebbe diverso; forse lì è possibile riflettere sulla possibilità di esistenza di un piccolo gruppo di privilegiati che si occupano esclusivamente di contenuti scientifici, senza dover tener conto dello spettacolo. Possiamo in questi casi anche penalizzare lo spettacolo, che anche io detesto. Ma nel nostro caso è opportuno fare dei compromessi, per non rischiare di non avere più nulla. Ci sono moltissimi casi esemplari di contributo alla cultura dato dai privati; solo per farti un esempio legato alla città di Milano: sai chi ha finanziato il restauro del cartone di Raffaello? Un privato, che con più di un milione e mezzo di euro ha pagato i restauri. A Milano a breve aprirà un nuovo museo, quello etrusco; questo museo è interamente pagato da una fondazione privata, ma anche nel caso del Premio di Nova Milanese non possiamo scordare che la sua esistenza è legata anche al contributo di alcuni privati.
S.S.: Ultimante hai dato alle stampe “L’ombra lunga degli etruschi”, un libro dedicato all’influenza dell’arte etrusca nell’arte moderna e contemporanea. L’idea di questo libro è legata alla creazione del nuovo museo?
M.C.: L’idea iniziale si è favoleggiata a una certa altezza; era nell’aria. Tuttavia la creazione di questo museo è stato uno stimolo importante per portare a termine la mia ricerca.
S.S.: L’anno scorso hai pubblicato “Impressioniste”, un libro che sta riscuotendo un discreto successo e che è dedicato a quattro artiste impressioniste poco note. Vuoi raccontarmi qualcosa in merito a questo volume?
M.C.: Io mi sono sempre occupata del ruolo delle donne nell’arte; all’interno di questa ricerca, a un certo punto ho intravisto uno spazio narrativo. Dopo aver scritto Artiste. Dall’impressionismo al nuovo millennio, ho capito che in Italia c’era un vuoto di studi sul tema delle donne impressioniste e per questo ho continuato la ricerca.
S.S.:La mostra legata ai sessant’anni del Premio Bugatti-Segantini sarà allestita dando molta importanza alla contestualizzazione delle singole opere esposte. L’idea alla base è che sia difficile comprendere il valore di un’opera d’arte estrapolandola dal suo contesto. Secondo Luigi Rossi, presidente della LAP e del Bice Bugatti Club, l’emozione culturale non è quasi mai spontanea, ma si produce invece grazie alla consapevolezza e alla conoscenza – nello specifico la conoscenza del contesto. Secondo te il valore del Premio Bugatti-Segantini è più storico-sociale che artistico?
M.C.: Sociale non lo so, storico sicuramente e anche in modo notevole. Tra l’altro è l’unico premio che abbia avuto una continuità, resistendo a una serie di cambiamenti e trasformazioni. Delle volte ha intrapreso delle strade e preso delle decisioni poco utili, ad esempio per avere in collezione delle opere importanti, ma la sua continuità nel tempo e la sua capacità di attrarre a sé investimenti di energia sia da parte dei privati sia da parte dell’ente pubblico è qualcosa di assolutamente importante e meritevole di essere raccontato. Vi è una grossa pecca, una cosa che non è accaduta ai premi come quello di Lissone o di Gallarate: la collezione del Premio Bugatti-Segantini non è custodita in un museo, perché non esiste. Il Comune è molto deficitario nell’ignorare questa dimensione e questo risulta controproducente, oltre a essere autolesionista, perché questo Premio è un elemento significativo dell’identità culturale di Nova Milanese.
S.S.: Quindi il tuo auspicio è che venga creato a Nova Milanese un museo civico che tuteli, valorizzi e faccia fruire alla collettività il patrimonio artistico creato grazie al Premio?
M.C.: Sì, un museo civico, perché la collezione appartiene al Comune ed è parte di una storia che ormai è vocazionale, una storia che ancora non ha luogo; Nova Milanese disconosce la sua stessa storia. La scuola di via Roma non può sostituirsi al museo. La gente deve poter andare al museo, guardare le opere che appartengono alla collettività e consultare i documenti.
S.S.: Hai avuto modo di studiare attentamente tutte le sessanta edizioni del Premio, ricerca che sarà pubblicata nell’importante catalogo ragionato atteso per questa speciale edizione. Leggendo la storia del Premio in parallelo con la storia dell’arte italiana di queste ultimi sessant’anni, hai trovato delle analogie?
M.C.: Il Premio non riflette in maniera così sensibile le vicende della grande arte, proprio per la sua connotazione specifica di essere così legato alla pittura e alle tecniche: è la sua peculiarità. Ogni tanto passano degli artisti significativi, interessanti e importanti; Alessandro Savelli ne è un esempio: è un bravissimo pittore, o meglio un bravissimo artista che usa la pittura. Negli anni Ottanta, per esempio, in Italia c’era la Transavanguardia, che però non è passata da Nova Milanese – non vi si riflette; così come negli anni Settanta non si sente l’arte povera, ma si sentono piuttosto degli esperimenti di diluizione e di apertura rispetto al formato rigido dell’estemporanea.
S.S.: Secondo te l’esperienza del Premio dovrebbe andare avanti?
M.C.: Certamente, deve andare avanti. Sarebbe un peccato squalificarlo così. Inoltre il Premio si è trasformato: adesso è internazionale, ha una rete intorno, dei contatti internazionali significativi; ha già ripreso il volo, come nessun altro premio italiano. Nella sua modestia di mezzi è assolutamente interessante, è una storia piccola ma fa parte della Storia italiana, al di là della qualità dei singoli quadri.