PELLE: UNA TERRA DI SCOPERTA — Simona Squadrito, intervista a Marisa Caichiolo —
Fonte: www.thatscontemporary.com
Questo hideout riporta un estratto dell’intervista fatta dalla critica d’arte Simona Squadrito all’artista argentina Marisa Caichiolo in occasione della mostra personale “THE SKIN: A LAND OF DISCOVERIES”, organizzata dal Bice Bugatti Club all’interno delle sale espositive di Villa Brivio a Nova Milanese in occasione 59esima edizione del Premio Internazionale Bice Bugatti – Giovanni Segantini.
La pelle, il mondo femminile: ecco alcuni dei campi di indagine dell’artista argentina Marisa Caichiolo.[…] Il lavoro di Caichiolo fa emergere le domande e il grido delle donne, sorprendentemente simile in tutto il mondo, attraverso le sue immense vesti: simboli del bene e del male, delle costrizioni, ma anche delle identità sociali. Un gioco di contrasti che viene agito dalle modelle e interpretato durante le performance, offrendo al pubblico uno spettacolo espressivo, sempre nuovo e dai toni forti, in cui la richiesta di libertà dalle prigioni sociali e culturali si leva sopra a tutto. (Estratto da “Marisa Caichiolo, raffinata interprete del mondo femminile” di Paola Gaviraghi, disponibile su www.diatribe.info)
Simona Squadrito: Vorrei che mi raccontassi qualcosa in merito al lavoro straordinario e complesso che da circa quindici anni stai portando avanti con il Building Bridges Art Exchange.
Marisa Caichiolo: Sono fondatrice, nonché direttrice, del Building Bridges Art Exchangedi Santa Monica, negli Stati Uniti. Si tratta di un’organizzazione no-profit legata all’arte contemporanea. Il nome stesso dell’organizzazione evoca la nostra missione, ovvero quella di voler creare e essere un ponte tra differenti culture attraverso l’arte, e cercare di evidenziare proprio la visione politica e sociale che hanno gli artisti sparsi nel mondo. Lavoriamo per coinvolgere le comunità locali e gli artisti contemporanei di tutto il mondo, promuovendo workshop, programmi educativi, mostre itineranti, scambi d’arte internazionali e residenze per artisti. Il contenuto principale delle nostre mostre ha un focus sociale e politico. Recentemente abbiamo creato un programma educativo con gli studenti delle scuole superiori di Los Angeles. Come parte del programma incoraggiamo i giovani artisti recentemente laureati a partecipare a biennali e a diverse residenze che lavorano in collaborazione con la nostra organizzazione. Il nostro spazio attuale, nel Bergamot Station Arts Center di Santa Monica, offre mostre di artisti provenienti da tutto il mondo: residenze, laboratori didattici e conferenze ospitate da un team di artisti sempre diversi. […]Ultimamente ci stiamo occupando di studiare, ricercare e infine divulgare le nostre conoscenze riguardo i meccanismi e i cambiamenti in atto nell’arte contemporanea e nel mercato internazionale, e nella relazione tra questi due agenti; nelle diverse forme che questo rapporto può avere nel lavoro del curatore, nel collezionismo stesso e ovviamente anche nel lavoro dell’artista. Prima il mercato dell’arte era contrassegnato soprattutto dal lavoro messo in atto dalle gallerie. Tutto il lavoro veniva fatto attraverso un rapporto diretto tra il gallerista e l’artista. Adesso le cose sono cambiate: diciamo che il mercato genera direttamente l’artista, che non ha più bisogno della figura del gallerista. Le grandi istituzioni, oppure le grandi manifestazioni internazionali come le biennali, hanno una funzione sempre più importante anche a livello commerciale; si tratta di un mercato nel mercato, dove l’artista ha la possibilità di entrare in relazione direttamente con il collezionista, così come con il critico o con il curatore.
S.S: Quali sono, secondo te, gli aspetti positivi e gli aspetti negativi dei cambiamenti che hanno investito il sistema dell’arte ?
M.C: L’aspetto positivo è che l’artista oggigiorno ha la possibilità di accedere in modo indipendente al sistema dell’arte e al suo mercato, senza un intermediario, ovvero il gallerista; può quindi promuovere in modo autonomo il suo lavoro, accedere alle residenze, trovare degli sponsor, etc. Ovviamente, muoversi all’interno del mercato è estremamente complicato. Inoltre, spesso si generano dei conflitti di interesse tra la richiesta del mercato e la ricerca dell’artista, e a risentirne di più in modo negativo è il lavoro dell’artista, che subisce le influenze del mercato e che, di conseguenza, è poco libero. Le fiere dell’arte sono un grande gioco in cui spesso a venire esposte sono le opere di artisti sostenuti da grandi collezioni, che pagano e investono affinché l’artista sia esposto in fiera; così facendo, si fa aumentare il valore commerciale delle opere, un valore che spesso non rispecchia il valore effettivo e reale del lavoro dell’artista.
S.S: Mi sembra che sia scomparso, o meglio diminuito drasticamente, quel collezionismo tradizionale, fatto dagli amateur dell’arte. Quel medio collezionismo che storicamente ha aiutato a sostenere il lavoro degli artisti. Oggi a comperare l’arte sono per lo più le grandi corporazioni e le banche, che vedono nell’arte un investimento speculativo.
M.C: È esattamente così. In questo momento c’è un grande divario e non c’è una via di mezzo. Gli investimenti vengono fatti o sugli artisti emergenti, che spesso sono sostenuti da collezionisti molto giovani, o sugli artisti più affermati, che vengono a loro volta supportati dalle corporazioni o dalle banche. Queste istituzioni vedono in quelle opere un investimento sicuro. A soffrire di più dei cambianti interni al sistema dell’arte sono gli artisti della “mid-career”, che sembrano essere come abbandonati. Si è infatti perso quel collezionismo che sostiene il lavoro di questi artisti. E questo è accaduto perché è stata spazzata via quella classe sociale che storicamente ha sostenuto questo tipo di artisti, ovvero la classe media.
S.S: Cosa deve fare, secondo te, un bravo curatore?
M.C: Il lavoro del curatore deve essere a 360 gradi. Si deve occupare di tutto, dalla A alla Z. Per molti la curatela equivale alla semplice operazione di appendere delle opere a una parete, ma questo non ha niente a che fare con quello che in realtà fa. Il curatore deve fare ricerca, documentarsi, conoscere l’intero percorso dell’artista, occuparsi del catalogo, dell’allestimento e anche del colore delle pareti.
S.S: Il curatore deve innanzitutto aiutare l’artista a veicolare la propria ricerca, e non – come spesso accade – utilizzare l’opera dell’artista per veicolare un proprio interesse, usando le opere come delle stampelle visive del proprio pensiero.
M.C: Sì. Il ruolo del curatore è quello di supportare concettualmente il lavoro di un artista. Ma molto spesso accade che l’idea del curatore è più prepotente del lavoro dell’artista, che così passa inevitabilmente in secondo piano.[…] Come in tutte le cose, dovrebbe essere l’etica personale a guidare le proprie scelte. Ad esempio, quando mi occupo di curare una collettiva non inserisco mai un mio lavoro al suo interno; tengo sempre le due cose separate e lascio il mio ego da parte. […]
S.S: Il tema generale dei progetti Internazionali della prossima edizione del Premio Bugatti Segantini si svilupperà intorno al binomio arte e politica. Qual è il tuo punto di vista rispetto ai rapporti che ci possono essere tra queste due parole?
M.C: Per me non esiste un confine netto tra l’arte e la politica. L’artista non può separare il suo lavoro dalla vita quotidiana, dalle difficoltà che incontra tutti i giorni; l’artista ha il dovere di confrontarsi con la società e con la politica.
S.S: Questo aspetto, a mio avviso, vale per tutti i cittadini.
M.C: Certo, ma a differenza di altre persone, l’artista ha la possibilità di dire e denunciare ad alta voce quello che succede. Inoltre, la portata del suo messaggio è più potente, ha la possibilità di arrivare a più persone, e per questo ha una responsabilità maggiore. Anche gli artisti più commerciali, quelli che sembrano disinteressati alle questioni sociali, esprimono comunque qualcosa intorno al mondo; sono figli del proprio tempo e quindi la loro testimonianza ha un grande valore.
S.S: Vuoi raccontarmi della mostra “THE SKIN: A LAND OF DISCOVERIES”, organizzata dal Bice Bugatti Club all’interno delle sale espositive di Villa Brivio di Nova Milanese. Quali sono gli elementi centrali di questa mostra che ha ripercorso buona parte della tua ricerca artistica?
M.C: È la prima volta che mi confronto con un progetto come questo. Anche se non si può parlare di una retrospettiva vera e propria, posso dire che i lavori esposti toccano il centro della mia ricerca. Da quando avevo vent’anni ho iniziato a investigare e lavorare sul concetto di pelle. Inizialmente sono partita da una ricerca condotta sugli animali velenosi. Come sai, gli animali velenosi sono anche quelli più colorati e spesso, per questo motivo, sono anche i più belli. Diciamo che questa ricerca ha aperto la strada al mio lavoro a seguire. Per pelle intendo uno strato che separa il mondo interno da quello esterno. La ricerca condotta sulla pelle, sui suoi possibili rimandi, mi ha condotto ad affrontare, nel mio lavoro, la questione legata ai migranti. La loro pelle, intesa in modo simbolico, cambia in continuazione, e questo avviene perché hanno l’esigenza di adattarsi nel nuovo Paese che li ospita. Un altro simbolo-oggetto che richiama il concetto di pelle – così come è inteso nella mia ricerca artistica -è l’abito. Ho lavorato tanto con i vestiti e anche questa ricerca si è nel tempo trasformata molto. Ad esempio, prima ho lavorato con i vestiti fatti di pelle e cuciti a mano. Adesso che ho quarantasette anni, quello strato spesso di pelle è diventato più leggero, morbido e minimale. L’intera mia ricerca artistica ruota intorno alla mia esperienza di vita coma donna, come emigrata e come madre. […] I vestiti che si indossano parlano della tua storia, della tua cultura, della tua identità; allo stesso modo la tua personalità, quello che sei, si esprime anche nella maniera in cui ti acconci. Così come il modo di acconciarsi i capelli, anche il corpo stesso viene usato alla stregua dei vestiti. Basta osservare come e quanto ai giorni d’oggi si fa ricorso alla chirurgia plastica. […] Si arriva ad avere sempre e in ogni circostanza la stessa faccia, che alla fine diventa una sorta di maschera. Nel video esposto in mostra si vede comparire l’immagine di una donna-robot. A questa donna-robot viene detto che lei ha una coscienza, che è viva. Qualcuno le pettina i capelli e le dice: «Ti abbiamo creata noi». Secondo me è questo che fa la società quando costringe le persone – sia le donne sia gli uomini – a rivestire un ruolo precostituito; la ritengo una cosa crudele. Alle madri viene detto che devono sembrare sempre più giovani. Cosa pensi che faranno questi bambini che vedono le loro madri diventare di plastica, una volta che saranno adulti? Rispetto alla rivoluzione sessuale che c’è stata, per l’emancipazione femminile non penso, in realtà, che si siano fatti dei grandi passi avanti. A mio avviso non c’è stata una vera e autentica emancipazione. Le donne si sono volute sostituire agli uomini, occupando i loro ruoli. Dal mio punto di vista, ritengo di avere meno di quello che aveva mia nonna o mia madre. Tutta l’energia che le donne stanno investendo per diventare più potenti ed emancipate le sta in realtà facendo perdere il vero potere. Le donne non hanno più tempo di crescere i loro figli.